Motaz – racconto scritto da Benedetta Bonfiglioli
Quando aveva otto anni, Motaz aveva preso lezioni di scherma, era stato operato alle tonsille e aveva fatto la conoscenza di sua moglie.
Era seduta su un divano coperto di seta rossa e rosa, così piccola che i piedi non toccavano il pavimento. Con lo sguardo fisso tra i disegni del tappeto, non aveva detto una parola e aveva alzato gli occhi solo una volta, quando sua madre, la zia di Motaz, aveva detto ad alta voce il suo nome: Nahla. I suoi occhi erano tondi e grandi, così scuri da sembrare senz’iride.
Sono passati dieci anni da allora.
Motaz è sulla terrazza dell’albergo dove alloggia con i suoi.
L’aria del tramonto è calda, gialla, ferma.
L’Egitto è sempre stato così nella sua immaginazione, giallo e caldo. Di quella prima visita in cui aveva conosciuto Nahla non ricorda granché, tranne la sabbia tra le dita dei piedi lungo la riva del fiume, e una strana sensazione di radici che affondano mentre suo padre gli mostrava la casa dove era nato, i cedri del grande giardino, l’angolo dove leggeva da ragazzo, la fontana con i pesci, il porticato e le cupole bianche della moschea. Motaz ricordava anche il colore del cielo, di un azzurro che a casa, a Roma, non aveva mai visto.
Spinge lo sguardo lungo il fiume solcato da piccole barche a vela tutte bianche.
Il sole è sparito.
Domani si sposa.
Nahla è molto bella.
Ha visto le foto.
Sua madre dice che è anche molto intelligente e che sarà una brava moglie.
Motaz ci crede ciecamente, come crederebbe al consiglio dello zio su quale cavallo puntare alle corse. Da quel giorno sul divano rivestito di seta, Motaz non ha dedicato grandi pensieri alla sua promessa.
Nemmeno piccoli pensieri, a dire la verità.
Quando a quattordici anni ha iniziato la scuola superiore nel liceo buono del quartiere, proprio non ce l’aveva in mente la sua fidanzata egiziana. Quando a sedici anni scorrazzava in motorino con gli amici, o andava alle feste e conosceva gente, lei non abitava nemmeno un angolo dei suoi pensieri. E quando si divertiva e quando era triste, quando beveva e quando mangiava, quando studiava e quando non faceva nulla lei non era che un puntino all’orizzonte.
Senza che lui se ne rendesse conto, il trascorrere distratto dei giorni intrecciava il suo futuro a quello di Nahla, e preparava l’ordito di un futuro insieme, come vuole la loro tradizione.
E ora è tutto pronto.
Dopo il matrimonio, Nahla verrà con lui in Italia e andranno a vivere in un piccolo appartamento preparato dai genitori di lui, come vuole la tradizione. Fino a qualche mese fa, la visione del futuro si interrompeva in questo punto. Non nascevano grandi interrogativi e a tutte le domande pratiche si rispondeva con la tradizione: chi pensa alla cerimonia? Come vuole la tradizione. Come si comporta la moglie con il marito? Come dice la tradizione. Come si comporta il marito con la moglie? Come vuole la tradizione. Motaz avrebbe iniziato la sua vita accanto a una donna scelta dalla famiglia, come avevano fatto suo padre e suo nonno, e il padre di suo nonno prima di lui.
Ma un pomeriggio d’autunno, all’improvviso, nella testa di Motaz erano nate delle domande che non trovavano risposta nella tradizione.
Ci ameremo?
Saremo felici?
Mi piacerà guardarla? Baciarla? Fare l’amore con lei?
Io le piacerò?
Mi sceglierebbe se non fosse obbligata a sposarmi?
Io la sceglierei se non fossi obbligato?
Le prime stelle si accendono pigre mentre Motaz scuote il capo e chiude gli occhi. Prima non se lo era mai chiesto.
Prima del ventotto settembre, prima di quel pomeriggio a correre nel parco, prima di vedere lei, che camminava tenendo un cane al guinzaglio e leggendo un libro dalla copertina morbida. Non guardava dove metteva i piedi, ci pensava il cane a tenerla sul sentiero. Quella volta era vestita di bianco, e aveva i capelli biondi legati in una coda. Aveva una bella fronte e il naso piccolo; il resto del viso Motaz non lo aveva visto. Aveva notato le mani bianche e le dita lunghe che afferravano con forza il guinzaglio e tenevano aperto il libro divaricandosi tra le pagine.
Motaz l’aveva notata perché era la prima volta che la vedeva lungo il suo solito percorso; perché era luminosa; perché sembrava raccogliere il sole e le nuvole e il vento ed espanderli fuori da sé.
Che cosa vuol dire innamorarsi?
Avere un chiodo nel cuore che fa male ogni volta che batte? Avere sete di un viso e di una voce, desiderare un tocco e immaginarlo prima di dormire sperando così di sognarlo tutta la notte? Svegliarsi la mattina felici, ed emergere da un bagno di visioni dolci di cui non resta che l’impressione tra le lenzuola della memoria?
Il giorno dopo era uscito a correre come al solito e, quando la vide, si rese conto di essere uscito per lei, e scoppiò in un singhiozzo per l’emozione. Si fermò a pochi passi da lei con la scusa di una stringa slacciata e le rivolse la parola.
Lei gli sorrise, per nulla stupita, e lo guardò come si guarda qualcosa di bello e inaspettato.
Le luci che provengono dal salone illuminano la terrazza deserta, dalle finestre alte fino al soffitto provengono ritagli di luce e rumori di bicchieri. Sono quasi le dieci. Motaz si chiede cosa stia facendo Chiara. Se lo sta pensando. Se sta pregando. Se lo ha già dimenticato.
Uno di quei primi giorni al parco, quando ancora non sapevano nulla, quando ancora erano estranei e non ancora indispensabili al sorgere del sole, Chiara gli aveva chiesto se avesse la fidanzata. E Motaz aveva risposto “Sì, si chiama Nahla. Vive in Egitto”.
Chiara aveva abbassato gli occhi ed emesso un sospiro che era sembrato un oh.
Motaz le aveva preso la mano perché sembrava stesse per scappare via, e per paura di andare alla deriva o di cadere, la baciò, perché la verità di quello che aveva appena detto gli aveva annebbiato la vista.
Era fidanzato.
E non erano solo parole.
Era promesso.
Non aveva potuto dire altro perché il cuore faticava a tenere il ritmo.
“Vediamoci ancora”, le aveva detto. Vediamoci per sempre, avrebbe voluto dire. Ma come fa il cuore a sapere certe cose? Come fa a intuire l’eternità dopo meno di mille parole dette? Come fa a consegnarsi inerme a mani sconosciute, a non lasciarsi atterrire dall’ignoto, paralizzare dall’emozione in quei momenti in cui tutto è così chiaro?
Sei tu. L’ho capito. E tu?
Chiara ha gli occhi marroni. Un viso normale, un corpo normale, muove tanto le mani bianche quando parla e sorride spesso, più con gli occhi che con i denti. Chiara è l’istinto del suo cuore, come il battere e il pompare il sangue nelle arterie. Chiara è la sua lingua natia, che capisce senza spiegazioni e senza grammatica, che significa ogni cosa e racconta tutto ciò che si può immaginare. Lei è il giorno, lui la notte, non possono stare lontani.
Ma Chiara non è la tradizione.
Non è la famiglia, non è l’Egitto, non è radici.
Si alza un po’ di brezza che porta l’odore del fiume e della vegetazione, l’umidità della notte e il frinire degli insetti.
Motaz avverte una presenza alle sue spalle e sa chi è prima ancora di sentire la voce di velluto di sua madre che gli chiede “Non sei stanco?”
Si volta a guardarla e le sorride.
È bella sua madre.
Scuote la testa, non dice nulla perché lei sa leggergli gli occhi e la voce, che dicono più delle parole e dei suoni; lei capisce sempre.
“Andrà tutto bene, abn”, figlio.
Tutto bene.
Motaz le prende la mano e se la porta al viso, la mano scura di sua madre un guscio di mandorla sulla sua guancia, i suoi occhi neri il grembo della notte.
“Come fai a saperlo?”
“Lo so”.
Motaz lascia i suoi occhi e annega nel buio del fiume. Lei non può sapere. E se sapesse, cosa penserebbe di lui? La donna lo raggiunge e posa le mani sul parapetto. Contempla il fiume e il suo viso si distende, come se sull’acqua fluissero immagini, ricordi lontani, giorni delicati.
“Tutte le paure che hai ora” gli dice “passeranno domani. I dubbi che hai… svaniranno poco alla volta. Imparerai ad amare tua moglie e lei imparerà ad amare te. Col tempo”.
“Mamma,” sussurra, “c’è una cosa che non sai”.
“Raccontami allora” gli risponde.
Motaz esita e trova il coraggio di parlare solo perché lei non lo sta guardando, come quando da piccolo le raccontava le sue cose segrete prima di dormire, con la luce spenta.
“Sono innamorato di una ragazza. A casa. A Roma”.
La madre socchiude gli occhi e piega la testa all’indietro, come per sentire lo sguardo delle stelle sul viso.
Sorride.
“Mamma, hai capito quello che ho detto? Non voglio sposarmi domani. Ho un altro nome nel cuore”.
La madre si volta e lo guarda con occhi che Motaz non ha mai visto, gli sorride senza allegria e gli dice “Lo abbiamo tutti”.
Tutti.
Come gli occhi neri e un nome esotico, come il Nilo mescolato al sangue e i capelli tinti nella notte.
Tutti.
“Abbiamo tutti qualcuno che amavamo prima. Ed è ancora lì. Mai dimenticato”.
Tutti.
Motaz la scruta, incerto se capire quello che sta dicendo. Sua madre sorride, come se le avesse dato una buona notizia, lui è in un labirinto di specchi, in piedi sulla soglia di una vita-prigione e accarezza le proprie ali per l’ultima volta sul viso di Chiara, nel suo ricordo, nel suo respiro.
“Non voglio sposarmi, mamma. Voglio tornare a casa”. Da Chiara, alla mia vita, aggiunge tra sé. Sua madre gli prende le mani e dice “Guardami, Motaz”.
Lui obbedisce e viene rapito dal tunnel del suo sguardo.
“Mi hanno promessa a tuo padre che avevo sette anni. Sono nata in Italia, come te, sono andata a scuola, avevo amici, come te. Tuo padre non è il primo uomo di cui mi sono innamorata. Ma è stato l’ultimo”.
Motaz abbassa lo sguardo, a disagio. Non gli piace quello che dice, ritira le mani, quelle di lei troppo calde.
“Mi sei sempre sembrata felice” riesce a dirle tradendo nel filo di voce un gorgoglio risentito.
“Perché lo sono” replica lei. Rivolge il viso al fiume e il figlio alza lo sguardo sul suo profilo, morbido. “Quelli che amiamo restano con noi per sempre, Motaz” dice sottovoce. “Ritornano nei nostri pensieri anche dopo molti anni, a volte all’improvviso, riportati da un odore, da una musica, da un niente. Sono loro a ricordarci chi siamo, la profondità del nostro pozzo. È quel tipo di amore che sa dirci chi siamo. E vivere senza aver mai conosciuto questo amore è come non vivere”.
“Mi stai dicendo che ora che so di amare davvero qualcuno devo rinunciare a lei? Perché?”
La madre lo guarda e gli sorride, mesta.
“Vogliamo solo che tu sia felice, abn. E l’amore non basta, per essere felici”.
La donna gli accarezza il viso e se ne va, indugiando in passi lenti ma senza voltarsi indietro.
È notte. Una notte senza sogni e senza sonno, con il cellulare in mano a scorrere le foto dell’ultimo anno, Chiara col cane, Chiara con il libro, Chiara che studia, Chiara che ride, che scherza, che lo bacia, Chiara che gli dice ti amo e lo stringe prima di addormentarsi. Chiara in una mattina di sole, Chiara che mangia un gelato, Chiara che lo saluta dalla bici nella luce abbagliante di aprile.
Chiara il giorno. Lui la notte. Impossibile stare separati. Impossibile stare insieme.
I rumori che provengono dal fiume lo svegliano all’alba. Ha dormito pochissimo, sognato alberi con rami adunchi e radici nodose, cieli bui e cadute.
È il giorno del suo matrimonio e l’unico desiderio che ha è quello di sparire.
Non ha mangiato nulla e si è lasciato vestire con docilità inerme.
Nel salone dalla magnifica vista sul fiume, gli invitati sono arrivati quasi tutti, chiacchierano a mezza voce commentando l’eleganza, l’occasione, la tradizione. Motaz è in piedi a un capo della stanza, dà le spalle alle grandi finestre e al fiume che placido scivola sulle loro vite depositando abitudini lente. Motaz non può fare a meno di osservare gli invitati e di scrutare i loro occhi neri alla ricerca del loro amore perduto. Per ogni uomo e per ogni donna si chiede chi fosse, che forma avesse il corpo che avrebbero voluto accogliere nel proprio, che suono avesse la voce che avrebbero voluto sentire al risveglio. Inciampa con lo sguardo nei suoi nonni, in sua madre, in suo padre, negli zii, nella madre di Nahla, e all’improvviso capisce che anche nel cuore di Nahla c’è un altro.
Il pensiero gli dà vertigine.
Quando smetterà di amare qualcuno che non è lui?
Probabilmente mai.
Motaz è pallido. Fa molto caldo e gli abiti sono preziosi e pesanti.
Si porta le mani alla gola e impacciato armeggia con le chiusure del colletto per slacciare la giacca, ha la fronte coperta di sudore, si volge alle finestre a caccia di ossigeno ma dalle vetrate aperte non entra nulla se non la luce gialla e calda, le urla dei barcaioli e degli uccelli, una parte di lui non crede che stia succedendo davvero, scoppia in una risata nervosa strappando esasperato un gancio della giacca che non vuole saperne di aprirsi, gli invitati cominciano a vociare, sta dando spettacolo.
Sua madre si alza e lo raggiunge, gli accarezza il viso come quando era piccolo e si svegliava di notte agitato e non sapeva perché. “Stai mettendo in imbarazzo tuo padre”, gli bisbiglia all’orecchio, “calmati”, aggiunge ferma, gli sistema la giacca di nuovo e lo accompagna al centro del palco, proprio davanti alle porte.
Suo padre è in prima fila, seduto rigido come una statua di cera, con gli occhi socchiusi e la stolida immobilità di un patriarca.
Finalmente nel salone cala il silenzio.
Il padre di Nahla gli si avvicina e in piedi accanto a lui respira piano, in attesa.
Da un qualche angolo della stanza si alza la musica dei flauti, entrano le ancelle della sposa vestite di seta arancione, con il capo coperto da un lungo velo che le avvolge completamente e sembra un sudario.
Pochi attimi dopo, con passo lento e misurato, chiusa in un abito bianco che le copre anche il capo, Nahla entra nella stanza.
È bellissima.
Tiene lo sguardo su di lui e si avvicina.
Motaz la guarda stringendo tra le mani un fazzoletto, vorrebbe volgere lo sguardo altrove, sui fiori che porta in mano, sull’abito, sulle ancelle, sui musici, ma non può: gli occhi di Nahla sono neri e profondi, come il fiume, come la terra all’ombra del grande cedro, come la notte in Egitto.
Qualcuno tira una tenda pesante e avvolge il salone nella penombra.
Non c’è più cielo.
Non c’è più giorno.
Alle loro spalle, imperturbabile, scorre il fiume.